FABIO DI MAIO....UN ULTRAS VERO, UN ESEMPIO PER TUTTI


tribuna

L’ANNIVERSARIO

14 ANNI FA MORIVA IL TIFOSO BIANCOCELESTE


Fabio, cioè il Treviso il Giro e il gran cuore. Che lo tradì a Monigo

di Antonio Frigo

LA TARGA PER FABIOGuardi la faccia della Bianca e te lo rivedi, davanti: uguale. Ma lui non c’è più. Avesse avuto un figlio di cui salutare la nascita quel giorno, invece di andare allo stadio a vedere il Treviso, oggi il bimbo di Fabio Di Maio, ultrà senza violenza, generoso a oltranza, simpatico per dono naturale, impareggiabile casco di boccoli in testa, domani avrebbe 14 anni e un papà di 47. Invece… Invece mamma Bianca e papà Carlo sono ancora lì a tentare di farsene una ragione, senza riuscirci. Vinti, amari e, in più, massacrati da una interminabile causa legale invano intentata contro chi, volendo risparmiare, non aveva previsto che per i 6511 spettatori di Treviso-Cagliari al Monigo non poteva bastare una sola ambulanza. L’unica assoldata, infatti, quando Fabio si sentì male e il suo cuore cedette al termine di Treviso-Cagliari, era andata a trasportare al Ca’ Foncello il portiere Mondini, ferito in uno scontro di gioco. E Fabio restò a terra a morire tra l’angoscia e la rabbia degli amici. Nell’immediatezza, si dissero un sacco di scemenze su quella morte. Qualcuno disse addirittura che Fabio era rimasto coinvolto nei disordini con le forze dell’ordine (lui che era stato sì espulso una volta dagli stadi, ma solo per aver dato del “mona” a un celerino). Il giorno dopo comparve l’inutile scritta, fuori dal Tenni, che diceva: «FABIO DI MAIO VIVE,CARABINIERI ASSASSINI». Mitologia d’accatto, non gli sarebbe piaciuta. Fabio soffriva di cuore, come mamma Bianca. «Lo avevamo scoperto per caso; prima lui, poi io». S’era sentito male già in curva durante la partita. Aveva minimizzato. Fuori dallo stadio, in un clima teso, il male era tornato buttandolo a terra. «Ad ucciderlo fu la mancanza di un’ambulanza lì fuori. Per chiedere almeno giustizia, senza ottenerla, mi sono mangiato quasi tutto. Le mie giornate sono vuote, la mia salute non c’è più», dice Carlo. Più di 200 mila euro, gli è costata questa «causa senza giustizia». Per pagare, s’è venduto l’ amatissima edicola in ospedale che gestiva con Fabio e Bianca. Quell’ospedale dove chi scrive, insieme a Carlo, Bianca, la sorella Anna, l’allora fidanzata e l’amico Toni, ha salutato quel volto cereo di morte, su un lettino del pronto soccorso. Era un amico di tutti, Fabio. E faceva parte di quella banda di guasconi di Fiera che ogni anno partivano per il Giro d’Italia con il furgone rosa, per vendere, precedendo la corsa, nelle piazze o sui passi dolomitici, la Gazzetta dello Sport che raccontava le gesta dei corridori. Fabio, Toni Barbie, il Barzi, Michele… Casinisti, un po’ vitelloni, ma capaci di farsi in quattro per dare una mano. C’era un rito che si faceva sempre – «fioi dea Fiera» e giornalista trevigiano – prima che i corridori muovessero le prime pedalate: la sera ci si riuniva in una camera, si faceva il cocktail (spritz, of course) usando come miscelatore un bussolotto d’olive sottaceto, poi si andava a prendere una «tosa» (cameriera, collega giornalista o strillona, massaggiatrice del team statunitense o aiuto cuoca dell’albergo) e la si faceva brindare con noi ai 24-25 giorni che ci attendevano. Senza «tosa» non valeva. E Sportoletti, il capo diffusione Gasport, vigilava, paterno, che i guasconi non ne approfittassero. Fabio, al di là dell’arguzia che brillava nei suoi occhi, era il buono della compagnia: la spalla larga da maestro di nuoto, l’atteggiamento rassicurante che conquistava i ragazzini nelle vasche dello Zambon (aveva il brevetto sub, come papà Carlo), se li portava con uguale spirito nella vita. E a raccogliere il suo testimone era pronto lo scarrozzatissimo e amato nipote Emanuel, che allora era un bimbo e oggi è già un adulto laureato. Nella foto che li ritrae assieme al mare, il nipote sembra un putto seduto sull’eroe. Thomas, Gianni, Lele, gli amici ultras dello stadio, forse un giorno le metteranno insieme per una mostra, quelle foto. Per ora continuano a invocare «Fa-bio Di-Ma-io» prima delle partite.

Zio Fabio, un amico dei ragazzini

Insegnava nuoto allo Zambon. E per Emanuel era un mito

altLa vedete la foto a destra? Fabio è insieme al suo nipotino, Emanuel, che considerava a tal punto il suo successore che ogni tanto andava a prenderselo, gli passava una manata di gel tra i capelli e se lo portava in piazza. Insieme – diceva lo zio – andavano “a gnocche”.

 La foto è bellissima, ed è anche la rappresentazione di ciò che Fabio Di Maio era: un ultrà dal guanto di velluto, un duro del ciaocrèm. Ed è stato questo il grande equivoco di quel Primo di Febbraio: quando le agenzie iniziarono a battere quel morto allo stadio di Treviso, tutti associarono a quella morte la violenza negli stadi. C’era anche il precedente, nel senso che a Fabio, per via di qualche parola di troppo spedita dalla curva a un celerino, era stato inibito per un periodo l’ingresso allo stadio. Ma Fabio Di Maio era amatissimo dai bambini, era un amorevole istruttore di nuoto, era una delle presenze più ricercate allo Sporting Zambon proprio per il suo ottimo carattere e il suo modo di gentile di seguire le persone che avevamo bisogno di lui. Emanuel oggi è un ingegnere. Fiero dello zione. (a.f.)

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